lunedì 17 settembre 2012

Industrie e cittadinanze

Dal secondo dopoguerra abbiamo avuto uno scatenarsi dell’industrializzazione, quindi – nel mondo – della finanziarizzazione, mosso da una cieca fede nel progresso materiale e di cui si sono fatti interessati campioni individui ambiziosi, spesso scarsamente dotati di senso etico o morale. Possibili, se non immancabili, effetti perniciosi di questa corsa sfrenata al tornaconto e al consumo si sono manifestati con chiarezza clamorosa soprattutto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso: si pensi agli incidenti nelle centrali nucleari, al caso Eternit, ad esempio; si pensi a come proprio in questi mesi e giorni i nodi siano venuti al pettine a Taranto e stia deflagrando la vicenda dell’ILVA; si tenga presente più in generale la crisi economica che sta attraversando l’Occidente a seguito di campagne e operazioni finanziarie dissennate di cui sono stati principale teatro gli Stati Uniti. Negli ultimi decenni si è venuta sviluppando nelle popolazioni la consapevolezza che occorre mettere un freno regolamentare agli sfruttamenti indiscriminati delle risorse naturali, agli sprechi di risorse e di beni di consumo; che non si può lasciar correre liberamente l’umanità verso profitti presunti suscettibili di rivelarsi bombe a ritardamento, profitti di pochissimi a danno della gente, distruttivi dell’ambiente naturale e sociale in cui si iscrive e da cui dipende l’evolversi dell’umanità. I riflessi di questa generale e mondiale situazione si ritrovano, ovviamente, anche a livello locale, nei più diversi angoli del mondo. Con la particolarità, semmai, che la reazione alla follia iperprogressista raggiunge con ritardo e non facilmente le provincie. 
Ilva di Taranto (da Internet)
Quale utilità può avere in un paesino tranquillo con una sua storia risalente alla più remota antichità, attorniato da ameni paesaggi e ubertose campagne che danno prodotti agroalimentari d’eccellenza, per un paesino insomma a vocazione agricola e turistica, l’impiantarsi o espandersi ivi di un’industria, peggio di una grande industria, di trattamento di carni con distribuzione a livello nazionale o internazionale? Certo, l’azienda fornirà posti di lavoro, non necessariamente a nativi della zona. Ma, d’altra parte, impatterà pesantemente sull’ambiente, cagionerà un incremento problematico della circolazione di autocarri in ragione delle necessità di trasporto del bestiame e carcasse di bestiame verso gli stabilimenti, quindi del prodotto verso le destinazioni finali. Rilascerà emissioni odorifere o, peggio, inquinanti (CO2, anidride solforosa, diossina, nanoparticelle). Assorbirà ingenti quantitativi d’acqua dalle falde e scaricherà fluidi non privi di componenti tossici a fiume. Ne risulterà un deterioramento dei terreni circostanti e della qualità delle specialità alimentari (lambrusco, aceto balsamico, parmigiano reggiano, frutta e verdura). Ne risulterà un sensibile abbassamento del valore dei terreni e degli immobili d’abitazione. Ne risulteranno danni per la qualità della vita e per la sanità pubblica, a fronte di vantaggi per la popolazione pari, in pratica, allo zero. 

La campagna attorno a Castelvetro (Mo) (da Internet)

E cosa dire dello stesso fulcro e oggetto dell’attività dell’industria in parola: si ritiene sia veramente utile, proficuo, sano macellare, trattare, condizionare tonnellate e tonnellate di carni bovine in un centro unico per distribuirle in tutt’Italia in particolare sotto forma di macinati per fast food? Tanto per incominciare, è da incoraggiare ancora oltre i livelli raggiunti il consumo alimentare di carni con i problemi sanitari da disturbi cardiocircolatori e da obesità riscontrati sempre più acutamente in tutto il mondo occidentale? Non sarebbe più ragionevole limitarli e soddisfarli il più possibile grazie a strutture locali di dimensioni umane e mediante approvvigionamento diretto in situ? È sensato (fabbisogno smodato di foraggi che riduce le superfici destinate alla produzione di derrate per l’alimentazione umana diretta) ed è etico l’allevare mandrie sterminate per una sistematica macellazione nel cui ambito i capi di bestiame sono «cosificati» e ridotti a semplice materia prima alimentare con un freddo cinismo che ricorda quello dei tristi campi di sterminio nazisti? Si aggiunga che il progetto d’impianto n. 2 dell’Inalca (rendering) prevede, non meno del n. 1 ritirato in extremis per evitarne la bocciatura, il trattamento di carni di bestiame infetto e portatore potenziale di gravi malattie (categoria 1). La normativa europea e nazionale vuole che queste carni, in cui si annidano germi di pericolosità anche estrema per la salute umana, vengano arse ad altissime temperature ed incenerite. Il trattamento di rendering è una bollitura a temperature relativamente miti: l’Inalca userà i fluidi grassi o oli che ne deriveranno come combustibile per i suoi motori, ma cosa farà con le farine da carni di categoria 1? Non è affatto chiaro. A norma di legge, non può trasportarle verso altre ditte sul territorio nazionale, tanto meno trasferirle a ditte che non trattino la categoria 1. Donde un dubbio non da poco e una preoccupazione in più per i cittadini, che già non hanno alcun bisogno sul loro territorio di uno stabilimento del genere e non possono ripromettersi che di ricavare danni e fastidi dal suo potenziamento. Il progetto n. 2 gioca sulle parole facendo figurare come sottoprodotti quelli che sono in realtà rifiuti e viola, non meno del n.1, le normative sanitarie e ambientali vigenti. 

Rendering plant in Croatia 1 [ 102.16 Kb ]
Un impianto di rendering in Croazia (da Internet)

Ma i pubblici poteri, le amministrazioni, non sentono da questo orecchio. Da sempre sono legati alle industrie da un tacito patto di solidarietà. Ciò, perché da un lato continuano a funzionare a livello mentale nella logica di un’economia fondata sul progresso industriale rozzamente inteso; d’altro lato, perché tra essi e le industrie vi è tutto un intreccio di interessi, a livello istituzionale e, talvolta, anche personale. Industriali e amministratori pubblici formano una casta dominante, con l’alibi della democrazia. È così che un umile comitato civico il quale si propone di tutelare l’interesse generale, basato sul volontariato e in cui spendono gratuitamente il loro tempo, le loro forze (e persino, in quest’epoca di penuria, denari!) lavoratori ordinari viene a scontrarsi con sindaci, assessori e personale della Provincia. Dopo aver evitato di dare pubblicità all’avallo di progetti industriali (il primo dei quali – almeno quello – scandaloso alla luce delle normative vigenti); dopo aver fatto di tutto (elusività e scadenze ravvicinate) perché il comitato non potesse presentare sue osservazioni in Provincia; dopo avergli negato di poter fare sentire la sua voce nelle sedi decisionali; dopo aver addirittura insinuato che le riunioni d’informazione da esso organizzate con successo configurassero un’indebita interferenza al limite del procurato allarme; ora è prevedibile che gli autoreferenziali pseudo rappresentanti delle popolazioni si straccino le vesti: esaurita ogni speranza di risolvere la vertenza in chiave di ragionevolezza e con le buone, il Comitato No Impianto a Biomasse Inalca si è rivolto ai tribunali.

Manfredi Lanza, presidente del Comitato

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